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Rufus Wainwright dal pop alla lirica. “Hadrian” ha nelle voci la sua forza

Rufus Wainwright dal pop alla lirica. “Hadrian” ha nelle voci la sua forza

Rufus Wainwright (Getty)

a teatro

Lo spettacolo teatrale è una “grand opera” gay. Ottima orchestra, un linguaggio volutamente rétro, ma l'eccesso di effetti rovina l'oggetto. Forse un po’ troppo di tutto, che fa sembrare l'opera più lunga di quanto in realtà sia

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L’atteso duetto d’amore arriva alla fine del secondo atto, ed è proprio un duettone d’antan, con le voci che salgono all’acuto raddoppiate dai violini. La novità è che si tratta dell’amore fra lui e lui, l’imperatore Adriano e il suo adorato Antinoo, uniti a dispetto delle convenienze, della minacciosa crescita del cristianesimo omofobo e di una Sibilla che profetizza che Antinoo dovrà morire perché Adriano viva, come poi puntualmente si verifica per la costernazione del Cesare inconsolabile. Ma insomma le Memorie di Adriano le abbiamo lette tutti, anche Rufus Wainwright, cantautore e autore pop folgorato sulla via dell’opera lirica e della necessità di rompere il monopolio eterosessuale del binomio amore & morte in musica e, insomma, di scrivere un Tristan o un Pelléas gay (si mira, come si vede, piuttosto in alto). Il risultato è Hadrian, “grand opera” in quattro atti che ha debuttato nel 2022 al Real di Madrid e, in prima italiana, venerdì come inaugurazione del Festival dei due mondi di Spoleto. Sempre per le sullodate ambizioni, operona: grande orchestra, coro, una locandina lunga così e tre ore di durata.

Al netto degli snobismi consustanziali all’ambiente per chi non esce dal serraglio della “classica”, va precisato che Wainwright i ferri del mestiere li maneggia benissimo: sa scrivere per l’orchestra e anche per le voci, e anzi proprio la sua scrittura vocale, tradizionale punto dolente dell’opera “contemporanea”, mi sembra il punto più forte di Hadrian. Quelli deboli sono un libretto di Daniel MacIvor talvolta prolisso e una musica che non riesce quasi mai a definire la drammaturgia, dunque i personaggi, le loro relazioni, i loro contrasti, ma si limita ad accompagnarli come se fosse una colonna sonora di taglia XXL. Il problema non è il linguaggio, volutamente rétro, ma la sua renitenza a farsi teatro, anche perché è sempre enfatico ed esclamativo (e un po’ ripetitivo, anche). Ma così l’eccesso di effetti rovina l’effetto, e l’opera finisce per sembrare più lunga di quanto in realtà sia. C’è un po’ troppo di tutto, insomma.

La responsabilità è anche del curioso spettacolo visto al teatro Menotti e griffato Jörn Weisbrodt, il marito del compositore. E’ più di un’esecuzione in forma di concerto e meno di una semiscenica: loro sono in borghese, seduti su sedie che vengono rovesciate quando chi le occupava muore, e recitano ma sempre tenendo lo spartito in mano. In compenso, su un enorme schermo scorrono i bellissimi bianco e nero di Robert Mapplethorpe, anche abbastanza osé, per esempio una lunga serie di primi piani di sederi maschili. Alla lunga, però, ripetitivi pure loro: dai e dai, anche il culo dopo un po’ stufa. Ottima, invece, l’esecuzione, diretta da Johannes Debus con orchestra maltese, coro locale e una compagnia nel complesso funzionale ma dove, anche lì, tutti cantano sempre un po’ troppo forte. Eccezione che conferma la regola, la gloriosa Sonia Ganassi, presente a sorpresa come spettro della defunta imperatrice Plotinia: la migliore in campo (santo, nel suo caso). Molti applausi.

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